CIRCOLO VIRTUOSO IL NOME DELLA ROSA

GIULIANOVA ALTA, VIA GRAMSCI 46/A

INFO LINE 338/9727534

VENERDÌ 19 APRILE ORE 21,00

READING

NARRIAMOCI 2024

Reading conclusivo partecipanti corso scrittura creativa

Un giorno troverò le parole giuste, e saranno semplici

 

RACCONTO CLASSIFICATO AL SECONDO POSTO

 

Libero Come… di Tony Giangiulio

(Cit.) “Possiamo passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Sani di mente o pazzi. Eroi o
vittime. A lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi. A lasciare che sia il passato a
decidere il nostro futuro.
Oppure possiamo scegliere da noi, e forse inventare qualcosa di meglio è proprio il nostro
compito”. (Chuck Palahniuk)

Sul tavolo un fiore blu, Mario camminava avanti e indietro. Un profumo di
non-ti–scordar-di-me. Nei grandi bivi della vita non esiste segnaletica – leggeva. –
Ci accorgiamo di aver sbagliato strada solo dopo un po’. Di solito siamo
condizionati- si diceva Mario: dapprima i genitori e la famiglia ci dicono cosa
siamo. Poi la scuola. Poi la società. Respiro profondo, Mario non si decideva. Il
peso del carcere addosso. E ora la seconda metà della propria vita davanti. Gli
balenava dentro questa idea: “Negli anni mi hanno tenuto circoscritto, nella
monotonia che fermava il tempo; ma chi mi tiene chiuso adesso? È meglio che
faccia quattro passi nell’aria fresca e frizzante di febbraio. Qui ammuffisco.”
Ora il passo svelto, scricchiolio della neve sotto i piedi. Sono vivo. Gli occhi
fuori dalle orbite allora, niente da fare per ore, sveglia, colazione, ora d’aria,
pranzo, cena. Nulla che attraesse più la mente. Leggevi e dimenticavi, leggevi e
non capivi. Si spandeva l’acqua col detergente negli stanzoni, poi era tirata via
poco a poco. Umiliati come maiali. Tu stesso non potevi dire se quegli stanzoni
profumassero o puzzassero di più: di candeggina.
Un giorno gira la chiave nella porta della cella, girano le chiavi in fondo al
corridoio, girano le chiavi anche del penitenziario. E sei fuori, e te la devi cavare
da solo.
Passi svelti nella neve ora, scricchiolii. Marco si dirige verso il parco
pubblico, e lì siede su una panchina stringendosi nel suo cappotto e guarda le
anatre che nuotano nel laghetto. Chi mi assumerà adesso? Come si ritrova un
lavoro?
Giocava un tempo coi ruscelli, chiudeva il cammino all’acqua con sassi e
rametti. Poi guardava come pian piano riprendessero il loro corso. Prima con
piccole infiltrazioni e infine travolgendo tutte le occlusioni messe a sbarrar loro il
percorso. Ricordi dolci di bambino… Eppure giocava solo. Lavoravano sodo suo
padre e sua madre, non avevano tempo per lui. Soffriva l’asilo, dove ci sono
regole e si sta chiusi. Amava l’aria aperta, e giocare da solo. Per raggiungere la
sua libertà, sollevava la rete del recinto. Ma era libero davvero? Nessuno
chiamava la polizia per riportarlo ai suoi? Era autonomo o disadattato? Occhi
chiusi.
“Signore, lei sta piangendo!” – lo scuote la voce di una bambina. Davanti a
sé c’è sempre il solito laghetto, sempre le stesse anatre col loro verso.
“Non si sente bene?” – insiste la bimba. Ma Mario non parla, fissa il laghetto, e la
sua luce riflessa. Nel suo stato d’animo assorto non era neppure in grado di
rispondere alla bambina.
Fissando quella luce ripercorre le tappe della sua vita: la scuola, dove
aveva un profitto mediocre e altro per la mente, i primi lavori che fanno tutti, il
cameriere e il fattorino. La ragazza che l’amò e che lui forse non amò abbastanza,
il matrimonio con lei andato in frantumi. La vita grama che seguì, e il furto subito
scoperto: un furtarello!
Un cigno arrivava vicino e mandava via le anatre.
“Stavo pensando alla mia storia” -dice infine alla bimba- “e perciò ero in lacrime.
Ma, ti assicuro, non erano lacrime di disperazione”- continuò. “Erano quasi di
riconoscenza per lei, per la mia storia appunto”. Strinse a sé la bimba che non
capiva e lo guardava con occhi sgranati. “Sedersi a guardare la propria storia è
come sedersi a guardare il proprio corso d’acqua. Ne traiamo calma della mente
e umida gioia interiore”.
E ora? Se ci pensava bene, ora c’era la libertà, e quel senso di liberazione
che si ha dopo aver sofferto. Quel lasciarsi rifiorire. Che farsene di quella libertà,
come indirizzarla?
Mario continuava a fissare i riflessi del laghetto. Chi lo avrebbe assunto sapendo
del suo precedente, il penitenziario?
Da un chioschetto vicino proveniva una musica e l’aria era fredda.
Si strofinò le mani e s’incamminò.