SABATO 13 MAGGIO ORE 21,00
“NARRIAMOCI”
Reading conclusivo partecipanti corso scrittura creativa
“Il talento senza allenamento è inutile”
Il racconto vincitore del reading
“Fuoco fatuo” di Luca Di Biagio
Ci sono stati anche momenti felici. Di certo non gli ultimi.
È per questo che l’ho fatta finita.
Alla fine, se ci si pensa, esiste un’ideale di vita per un ragazzo di ventitré anni?
A parte la solita manfrina, ormai trita e ritrita, della spensieratezza o immaturità di fondo, capaci di farci scivolare il mondo addosso, io non saprei rispondere.
Quello che posso dire è che a me non è riuscito.
Il peso delle aspettative mi ha divorato ed inghiottito.
Ma visto che la storia è mia, voglio decidere almeno come debba essere raccontata.
Partiamo da quei momenti felici, un po’ per farla meno tragica di quanto già non sia, un po’ anche per riflettere e tirare delle somme.
Ecco, direi che questo mio lungo addio sia un modo non tanto per salutare o rimpiangere, ma piuttosto per capire. Capire perché si sia arrivati a tanto, dato che, in fondo, se ci si avviasse così presto ai saluti, vorrebbe dire che qualcosa storto potrebbe essere andato.
E in questi casi mi verrebbe da dire che le responsabilità sarebbero da dividere.
Perché se è vero che i matrimoni si fanno in due, al funerale invece si è da soli; come è vero che siamo tutti bravi quando c’è da festeggiare, ma poi a pulire lo schifo rimani sempre tu.
Ma non sono qui per piangermi addosso, tanto meno per essere compatito.
Tanto, quel che è fatto è fatto.
L’unica cosa che mi rimane da fare è cercare di tracciare una linea.
E sarò onesto (me lo perdonerete, giunto al capolinea), serve innanzitutto a me. Se non per conferire un senso al tutto, almeno per rendere il tutto meno vano.
Per far sì, se a qualcuno venisse in mente di avvalersene, di poter attingere al mio caso.
Mi hanno messo alle strette, ed io ho deciso di optare per la via più sbrigativa, più stringente, qualcuno dirà la più vigliacca.
A me è parsa essere semplicemente l’unica.
Sono sempre stato una persona pratica, ai limiti del cinismo.
E se il mondo che mi ospita, la vita che mi spetta, non mi appartiene, io semplicemente saluto, al massimo ringrazio, e tolgo il disturbo. Nemici come prima.
Se è giusto o sbagliato andarsene così, lo lascio dire ai posteri.
Fino a qualche anno fa vivevo un’esistenza tranquilla, oserei dire a tratti soddisfacente.
Zero eccessi, senza eccellere.
Obiettivi modesti, alla portata.
Insomma, un ragazzo nella media, a cui probabilmente non avresti mai fatto caso, e di cui sicuramente avresti fatto a meno.
Ma a me non interessava essere considerato; vestivo grandemente la mia mediocrità.
Il problema è sorto quando la mia normalità, nel senso stesso di “essere nella norma”, è iniziata a non bastare più. Ma non a me, ai canoni.
Mi si chiedeva di più, ed io quel di più non lo avevo nelle corde. Ero spalle al muro, senza un bersaglio con cui prendermela. Da qui nasce il pomo della discordia, una sorta di incompatibilità latente con la vita.
Ero uno studente della facoltà di Medicina all’ Università di Chieti.
Una matricola, un numero.
Per quanto mi preparassi, non ero mai all’altezza delle aspettative.
Quello di oggi, il nostro mondo universitario, è fatto di tanta competitività e poche scuse.
Mia sorella, che frequenta il liceo classico del nostro paesino natale, mi ha parlato di Verga, di quanto già ai suoi tempi si parlasse di “fiumana del progresso”:
- Mantieni certi standard o sarai lasciato indietro -, mi spiegava.
Il suo era un modo non tanto per consolarmi (anch’ella evidentemente pragmatica, da buoni figli di nostro padre), quanto di responsabilizzarmi, di darmi “gli strumenti per conoscere il presente”, avrebbe detto papà.
I miei compagni di corso rispondevano diversamente alle esose e propedeutiche richieste istituzionali.
Si passava dai cosiddetti “animali da battaglia” (o bestie da soma, che dir si voglia), che più fustigavi e facevi carne da macello, più si costituivano tuoi adepti. Tu li aizzavi e loro si incattivivano. E ancor più si sottomettevano.
Era come colpire cani da combattimento, prima di gettarli nella faida, pronti a maciullarsi.
Fino a che, alla fine del fratricidio, non spuntava fuori la classe degli “avvoltoi”, che si accanivano sulle carogne dei rimandati a giudizio.
Ecco, eravamo tutti “sub iudice”, messi costantemente alla prova con qualcosa più grande di noi, e poi alla gogna, se non meritevoli di banchettare alla tavola degli illuminati.
Mi faceva un po’ strano comprendere quella logica. Si percepiva la sofferenza che ne derivava, nonostante si facesse di tutto per non darla a vedere.
Chi invece mi procurava un fastidio ai limiti del fisico era il prototipo di studente sui generis, di colui che sapeva rimanere al suo posto nonostante le angherie, riuscendo ad isolarsi, metaforicamente e non, da un meccanismo fin troppo oliato.
Come se, tutt’a un tratto, il criceto decidesse di scendere dalla ruota, captando di star correndo a vuoto.
Mi davano il voltastomaco, anche perché, con il loro esempio disgustosamente equilibrato, mi obbligavano a chiedere di più a me stesso.
E se il mio massimale non è abbastanza? Sarà anche un mio diritto quello di ammainare le vele oppure no? O è sempre il mondo a essere cattivo, spregevole e perfido? Sarà pur plausibile che ci sia chi, come me, sia destinato a soccombere? Alla fine, si tratta semplicemente di alzare l’asticella. E chi se ne importa se chi non si allinea, affonda. Vorrà dire che il futuro sarà dei superlativi, di maggioranza e minorati.
In fin dei conti, non è questo l’obiettivo ultimo dell’uomo? Progresso, evoluzione?
Forse, anche il mio sacrificio sarà stato consumato per uno scopo più grande.
Ma allora, perché fa così male?
Oggi, mi piace immaginarmi come un fuoco fatuo in una calda sera d’agosto.
Volevo fare il medico come papà. Non sono riuscito a salvare nemmeno me stesso.